L’ufficiale Taglialegna

non portava le scarpe a tennis

(Dino Barzacchini detto Palla)

 

Lui Dino un bell’uomo, alto moro ben robusto e asciutto nel suo fisico che certo tanti capi famiglia avrebbero visto di buon occhio da maritare alle loro figlie. Era buono onesto e lavoratore, Dino era il terzo di quattro fratelli, tre maschi e una femmina, tutti bravi ragazzi sani e robusti amanti della montagna.

Erano cresciuti con sani principi e il rispetto reciproco verso se stessi e gli altri.

Erano nati e abitavano al Mantovano, alle pendici del Monte Serra (allora non c’erano tutte queste case nuove, ma oliveti e campi da coltivare).

Molta gente di Buti City, è nata al Mantovano (Panicale) e si sente tuttora orgogliosa.

Il loro mestiere tagliaboschi, coltivavano pure una piccola oliveta, un orto e animali da cortile, polli e conigli. Lavoravano con il Padre, con la sorella e la Madre accudivano alla casa.

(Queste cose le ho apprese da Lui, da Dino. Ricordo veniva spesso a mangiare da noi. Certo mio padre doveva dirglielo diverse volte. Veniva ben vestito a festa, era simpatico e sempre sorridente quando rimembrava si commuoveva a fatti avuti d’ingiustizia)

Raccontava Dino:

“Il tempo passava e ognuno si dimenticava di formarsi una famiglia e migliorare di più nel lavoro cioè  uscire dal paese per avere più libertà di scelta nel lavoro.

Qui al paese c’era ben poco, si tribolava.

Mi iscrissi nella marina, divenni Sotto Ufficiale, ero orgoglioso, ero un uomo nuovo; mi sentivo importante.

Ho navigato con la Vespucci, su rotte sconosciute, ho visto un mondo meraviglioso, misterioso e infinito di terre e costumi di paesi lontani.

Ho visto albe diverse, distese immense e onde sublimi del mare.

Risvegli e tramonti di sole e lune dai colori del mondo, era fantastico pareva fossero li a pochi metri tanto erano grandi.

Ho conosciuto popoli di culture e religioni diverse, uomini di colore diverso da noi. Certo a scuola in marina l’avevano insegnato, ma vederli era diverso.

Erano come noi quei figli di Dio, minacciati da gente cinica e maligna.

La loro miseria si leggeva nei loro occhi penetranti, nelle loro bocche senza denti, ci sentivamo impauriti, “impauriti di essere aggrediti”

Si sa, al primo attrito è così, poi nasce la stima e così fù.

Ogni qual volta che li lasciavo mi faceva male il cuore.

Con la Vespucci si salpava in ogni porto e al porto di Trieste ho conosciuto, il mio primo e unico amore. Una bella putea “ragazza” alta e snella era fatta a esse ( tutta curve) con una carnagione di porcellana, occhi verdi che risaltavano sui capelli corvini.

Eravamo innamorati come due colombi, si viveva l’uno per l’altro. Non la posso dimenticare l’ho ancora nel cuore! Poi un giorno, quel giorno! Mentre eravamo al largo con la mave, un amico mise una pulce nel mio orecchio “dicono” non avrei voluto credere, certo finsi di non darle ascolto, cercai di sorvolare l’argomento. Mentre guardavo l’orizzonte sentivo quel pizzichio perpetuo nel cervello, mi tormentava. Avrei voluto darle una testata (testa nella testa) a quel mio amico, se mi dava una coltellata pativo meno.

C’erano giorni di riposo, la nave stava in porto su a Trieste, e io volavo dalla mia Resi, dal mio passerotto, la prendevo tra le braccia e la facevo volteggiare, uscivamo a passeggio sotto le stelle baciate dal profumo del mare, dalla carezza del vento.

Più tempo si passava a letto, a parlare, a sognare in libertà.

Senza far trapelare niente, un giorno dissi a Resi “tra due giorni salpiamo”  rispose: Dino torna presto e sposiamoci, sposiamoci. Era tutta la mia vita, mi si riaprì la ferita nel cuore.

Uscii, camminai a lungo senza meta trascinandomi per le strade con i miei pensieri.

C’era la bora e il vento fino, non sentivo il freddo che mi avvolgeva, al calar della notte tornai indietro furtivo come se fossi braccato, mi nascosi, già si era fatta tarda notte.

Salii con passo pesante le scale,  avevo la chiave, due giri entrai lento, accesi la luce Resi gridava, “chi è, aiuto c’è un ladro! Sostai sulla soglia di camera Resi era mezza nuda, l’uomo in piedi.

Il sangue mi andò alla testa ma non feci niente, per un attimo rimasi impietrito dicendo: “mi hai ammazzato, poi ripresi, Resi perché… voglio sapere. Resi non rispondeva. “Voglio sapere ho il diritto di saperlo”. Resi rispose: “no”. uscii dalla sua vita, so che Resi veniva spesso alla nave a chiedere di me, così troncai la carriera per Lei; avevo lei, pareva di avere il mondo, mi sentivo qualcuno e invece ero niente, quando si perde ciò che è prezioso si diventa nulla. Non ho più avuto fiducia nelle donne, così sono rimasto solo, solo con i miei ricordi.

Ho ripreso la vita del tagliaboschi. Sono tornato sui monti, compero tagli (un pezzo di bosco da tagliare) e vado con mio fratello e amici, andiamo anche lontano, ora ci sono i mezzi.

Tutto andava bene quando il destino voltò pagina, mio fratello si ritrovò solo cacciato dalla moglie e le materasse in strada, che a sua volta diede fuoco; bruciò i suoi sogni; e così iniziò una vita travagliata.

Entrambi avevamo preso una brutta piega, dopo il lavoro (come si dice a Buti) si prese a frequentare le bettole, la sera si scendeva in paese a bere un bicchiere, poi un altro sino ad abbrutirci.

Ricordo, la mente era sempre torba, il pensiero di Resi era diventato il mio tormento. Certe volte mi addormentavo nei boschi regalavo alla luna il mio rimpianto. La rugiada mi destava, mi lavavo nell’acqua pura del mio fiume. Sollevando lo sguardo guardavo verso il campanile, verso il mio Dio, e così riprendevo la vita.

Non dico di no, quando dicono che rubavo polli, però non sempre, ogni tanto uno per cuocerlo, so che è disonesto, non era nella mia indole. Che vuoi il be confonde le idee, se c’era una donna sarebbe stato diverso, non avrei sbagliato, ma due uomini soli!

Argia ti racconto perché tu abbia di me  un’immagine diversa da come raccontano.

Sai a volte sbirciavo, lo facevo volentieri perché sapevo che stavano dietro le finestre a sentire (oggi lo fanno pure i giovani più istruiti quando bevono).

Riprendeva, ti ricordi quando tentarono di rubare al Micco, diedero la colpa a me; qualcuno disse di avermi visto per la piazza a tarda ora. Cosi pagai per qualche ………..  per qualche pino tagliato.

Venni fuori perché non c’erano prove e per la mia brava condotta.

Guardai Dino e lessi nei suoi begli occhi grandi come quelli di mia madre che era sincero.

Eravamo tutti seduti a tavola, volsi lo sguardo verso mia mamma, le feci un cenno, lei annuì così pure mio padre. Mi rivolsi a mio cugino da parte di mia mamma e dissi: “ quando stavi via laggiù, dove ti portarono…………..

Dopo tanto tempo venne un uomo del paese, abitava in piazza nova (non si diceva piazza Garibaldi) a rivolgendosi a mia mamma disse: “Sono venuto Tosella, ho una serpe in seno e me la voglio levare prima di morire. Non è vero che Dino aveva attentato al Micco.

Stavo alla finestra non avevo sonno quando vidi sbucare un uomo; era entrato nel retro bottega del Micco. Sentivo picchiare, attesi….. vidi uscire l’uomo, diedi un colpo di tosse si volse lo riconobbi e per meglio ancora perché la luna era alta nel cielo, era alta abbastanza per illuminare le scarpe bianche a tennis, quelle scarpe gliele regalarono l’americani ed era l’unico che le portava”.

Mamma disse: “Io non posso farci nulla, ma tu vai a confessarti e poi perché non hai parlato giusto?”

“lui ha una famiglia”  Dino rispose. So, seppi appena ritornai dal carcere (è brutto il carcere meglio morire che sentirsi privati della libertà) Mi venne a trovare e piangendo mi raccontò. Non ho fatto nessuna denuncia ormai il dado era tratto, un uomo ha già pagato, lasciamolo alla sua odissea (rimorso), mi credi Argia? Certo risposi Zio. Riprese Dino: “so che ha sofferto tanto mia sorella che io adoro e i miei fratelli per questo ho sofferto.

Sono un Ufficiale galantuomo e un Ufficiale Boscaiolo non porta le scarpe a tennis”.

 

Indietro